E il miracolo arrivò. Si materializzò quando nessuno in campo e sugli spalti ci sperava più. Ma all'improvviso un attaccante del Deportivo entrò con decisione nell'area del Valencia, superò un difensore che lo sgambettò e, tra lo stupore di tutti coloro che seguivano la partita col cuore in mano da ogni punto della Spagna e della Iugoslavia, l'arbitro fischiò il rigore.
Venne giù lo stadio. Le gradinate del Riazor, fino a quel momento mute, esplosero in un grido come mai Djukic aveva sentito prima. Rigore. Era proprio vero. L'arbitro aveva fischiato. Alcuni giocatori del Deportivo si mettevano le mani nei capelli senza riuscire a capacitarsi. Altri si facevano il segno della croce. Pareva impossibile, eppure il miracolo si era avverato.
O meglio, stava per avverarsi. L'arbitro aveva fischiato il rigore, ma bisognava ancora segnarlo. E adesso vediamo chi è il duro che se la sente di batterlo in questa circostanza! Di fatto i suoi compagni già lo cercavano con lo sguardo e dalla panchina tutti gli facevano gesti isterici perchè si dirigesse verso l'altra area. A Djukic parve, di colpo, che tutto lo stadio si appoggiasse su di lui.
Malgrado ciò reagì con fermezza. Mentre attraversava il campo accompagnato dalle grida del pubblico e dalle parole di incoraggiamento dei suoi compagni che gli davano consigli diversi o addirittura opposti (Tira forte!... Piazzala!...).
Quando l'arbitro gli consegnò il pallone guardandolo un attimo come se lo compatisse, Djukic era già fermamente deciso a tirare quel rigore. E comunque non avrebbe avuto scelta. Djukic non era di quelli che si tirano indietro. E poi i suoi compagni non glielo avrebbero mai perdonato. Così come - pensò - non lo avrebbero mai perdonato se avesse sbagliato.
Prese il pallone e lo strinse tra le mani. Lo faceva sempre in quei casi, come per assicurarsi che fosse gonfio. Ma in realtà era lui quello al quale mancava l'aria. Aveva l'impressione che il petto gli si stesse chiudendo. Al suo fiuanco un compagno gli dava gli ultimi consigli mentre l'arbitro gli diceva quello che gli arbitri dicono sempore in questi casi: di non fare niente di strano, di non interrompere la rincorsa, di aspettare il fischio preima di tirare... ma lui non li sentiva. Non sentiva neppure le grida del pubblico che si erano spente un po' alla volta a mano a a mano che l'istante decisivo si avvicinava. Djukic sentiva solo il battito del suo cuore e il ronzio della sua respirazione affannata. Per la prima volta si rese conto di essere più nervoso del previsto.
Cercò di recuperare la calma. Respirò a fondo cercando l'aria e sentì come questa si schiantava contro il suo diaframma, ma non riusciva a raggiungere i polmoni che sembravano essersi bloccati. Djukic ci provò di nuovo. Posò a terra il pallone sul dischetto del rigore e retrocesse di qualche passo. Non aveva ancora pensato a come lo avrebbe tirato. Era meglio tirare una botta, dimenticare la tecnica, colpire il pallone con tutte le forze per assicurarsi almeno che nessuno avesse niente da ridire.
Non ebbe il tempo per continuare a pensare. All'improvviso Djukic sentì il fischio dell'arbitro e capì con angoscia che il momento decisivo era arrivato. Di fronte a lui la macchia azzurra del portiere riempiva tutta la porta (capita sempre così). Al suo fianco non vide nessuno. Solo un'altra macchia - la macchia nera dell'arbitro - che aspettava vicino al limite dell'area. Tutti gli altri, i giocatori delle due squadre, il pubblico, perfino i poliziotti e i fotografi che fino a quel momento si erano ammucchiati a centinaia dietro la porta, erano spariti. Nello stadio Riazor e nel mondo intero, restavano solo lui, il portiere e l'arbitro.
Djukic cominciò a correre senza sapere ancora come avrebbe tirato il rigore. Ormai non poteva più pensare, ormai era tardi per tutto. Colpì il pallone senza guardarlo, come se colpisse l'aria, quell'aria che a lui mancava, e per alcuni secondi che a lui sembrarono eterni, lunghissimi, interminabili, guardò il pallone allontanarsi in direzione della porta dove la macchia azzurra del portiere cominciava lentamente a muoversi. Non vide neppure dove andava a finire, non vide come lo parava. Vide solo che di colpo il campo tornò a ruggire dopo vari secondi muti, e il portiere del Valencia, che si era rialzato, cominciava a correre e far salti di gioia mentre i suoi compagni correvano ad abbracciarlo. Aveva parato il rigore.
Djukic, inginocchiato sull'erba come un pugile al tappeto, pensava solo a fuggire da lì mentre ripeteva a se stesso, come il giorno in cui era morto suo fratello, la frase che suo padre era solito pronunciare quando la vita lo colpiva: «Tanta passione per nulla».
Julio Llamazares, "Tanta passione per nulla"
2 commenti:
Ciao, volevo chiederti se hai tradotto tu il racconto o l'hai trovato già tradotto.
Saluti
Già tradotto. Da questo libro:
http://www.libreriadellosport.it/libri/cuentos-de-futbol-2.php
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